venerdì 11 luglio 2025

Francesca Michielin: «Sanremo è stato durissimo, ma mi ha svegliata. Oggi sono di nuovo in sintonia con me stessa»

Voce narrante del nuovo Bambi e protagonista di un grande live all’Arena di Verona, l'artista ripercorre il suo cammino tra inciampi, nuove consapevolezze e una ritrovata energia creativa

Foto di Alessandro Treves

Francesca Michielin non piacciono le persone che provano in tutti i modi ad affiancare lo sport e la musica. Sono due cose diverse, dice. Se il primo ha una base oggettiva, fatta di risultati facili da valutare, la seconda non è minimamente prevedibile. A volte una canzone va bene, altre volte, invece, va male. E questo a prescindere da qualunque considerazione. Con il suo ultimo singoloFrancesca, ha provato a tenere insieme due anime: quella del passato e quella del presente. Ha ripercorso la sua infanzia, poi la sua adolescenza, e alla fine ha riabbracciato sé stessa. Serve tutto, sottolinea Michielin. Servono gli errori, gli inciampi e anche la sofferenza. Cita Hayao Miyazaki e ricorda il suo incontro con Franco Battiato, quando aveva appena 17 anni.

Il cinema è una delle sue grandi passioni. Ed è stato per questo motivo che ha deciso di prestare la sua voce, come narratrice, al Bambi di Michel Fessler, in sala con Lucky Red. Voleva mettersi alla prova, dice Michielin. Voleva sperimentare una cosa nuova. E nella dimensione dello studio di registrazione, si è sentita a casa. Ora guarda davanti a sé, al concerto del 4 ottobre all’Arena di Verona: Michielin30Tutto in una Notte, una serata piena di musica pensata per ripercorrere con il pubblico e in compagnia di amici e colleghi i momenti più significativi della sua carriera. Michielin ha cominciato a sognare l’Arena quando era ancora una bambina e guardava il Festivalbar. L’ha incontrata per la prima volta, come spettatrice, quando è andata al concerto di Jovanotti. Ha paura, ammette, ma insieme alla paura c’è pure la voglia di dare il massimo.

Perché ha deciso di prestare la sua voce a Bambi?
«Quando mi è stato proposto, ho detto subito di sì. E questo perché il cinema mi è sempre piaciuto. Nel corso del tempo, fin da quando avevo 18 anni, ho stretto tantissime collaborazioni tra canzoni, colonne sonore, corti e doppiaggio. Davanti alla possibilità di essere la voce narrante, ho accettato perché era una cosa che volevo fare. È stato un modo per mettermi alla prova. E poi mi piaceva l’idea di raccontare una storia simile, legata alla natura e dai significati così intensi».

A che cosa si riferisce?
«Be’, la storia originale di Bambi è stata scritta da un uomo, Felix Salten, che è fuggito dalla Germania nazista e da quel tipo di prevaricazione. Penso sia sempre interessante quando un racconto può offrire piani di lettura differenti. E poi mi piaceva poter lavorare con Lucky Red, che è una società che stimo molto, e mi piaceva potermi confrontare con un professionista come Federico Zanandrea, che ha diretto il doppiaggio».

Che cosa le è piaciuto di più di questa esperienza?
«Stare in studio. È un processo molto immersivo e coinvolgente, un po’ come quando si fa musica».

Quando ha visto per la prima volta il Bambi animato?
«Da piccolissima. Andavo ancora alle elementari, credo».

È stato intenso?
«La nostra generazione è stata abituata fin dall’infanzia alla disillusione e alla perdita delle figure di riferimento. Ci muoviamo divisi tra l’incertezza costante e una precarietà quasi assoluta, anche per quanto riguarda le dinamiche socialiuna cosa di cui parlo nel mio singolo. Quindi sì, è stato intenso».

Però?
«Però, forse, sono felice di averlo visto e di aver vissuto questa esperienza. I miei genitori non hanno mai provato a nascondermi determinate cose. Mi hanno sempre portata ai funerali. Altri genitori non lo fanno, pensano che si tratti di una cosa troppo difficile da gestire per un bambino».

I suoi genitori, invece, che cosa pensano?
«Che sia importante riconoscere la morte come una cosa naturale, per quanto tragica, e come una parte fondamentale della vita, anche se suona come un ossimoro».

In Bambi c’è una certa ciclicità: morte e rinascita; inverno e primavera. E la stessa ciclicità torna anche in Francesca, il suo ultimo brano.
«Una delle cose più importanti, quando si diventa adulti, è saper accettare le contraddizioni della vita. E quindi anche il dolore va abbracciato e ascoltato, proprio come va abbracciato e ascoltato quello spirito più ingenuo, più bambino, che vive dentro di noi. In questa fase della mia vita, sto provando a far coesistere questi due aspetti: da una parte l’avere 30 anni, essere una donna e avere un mio vissuto; dall’altra, non perdere il contatto con la bambina che ho dentro di me. Non è un caso se, ora come ora, mi piace molto la parolasintonia”. Lavorare a Bambi mi ha aiutato a ricordare che tutti, prima o poi, cresciamo e dobbiamo fare i conti con i nostri traumi».

Per fare arte è necessario soffrire?
«Sicuramente non si può fare a meno di conoscere il dolore. Penso a quello che ha detto Hayao Miyazaki e che ultimamente è stato ripreso. Per Miyazaki è fondamentale provare determinate cose prima di raccontarle, e per mettere in scena il dolore è essenziale conoscerlo. E io sono d’accordo. Bisogna spezzarsi e ricomporsi continuamente, e bisogna rimettersi in discussione nel gestire le proprie fragilità. Una cosa che ho notato durante e dopo la pandemia è stata la tendenza della musica italiana nel produrre canzoni felici e spensierate, molto ritmate. E questo perché avevamo bisogno di distrazioni. Ora, invece, è diverso. Ora ci sono guerre, crisi, conflitti costanti. E la musica non può evitare di parlarne».

Com’è andato il primo mese di Francesca?
«Molto bene. Meglio del previsto. Ero davvero in ansia. Questo nuovo singolo rappresenta tante cose per me. È un nuovo inizio. Quindi sì, ero agitata. Però sono felice del modo in cui il pubblico lo ha accolto. Credo che quando sei onesta, quando ti impegni al massimo, le persone riescano quasi a percepirlo. E per me era fondamentale ristabilire questo patto con le persone che mi ascoltano: sono di nuovo io, sono di nuovo sintonizzata con me stessa. E secondo me si è notato».

Tra le tante cose interessanti che ha detto Federico Pucci nella sua analisi su Fanpage, c’è l’ambiguità che contiene dentro di sé Francesca: non sappiamo mai se si riferisce al passato o al presente. Quindi lo chiedo a lei: questa è una canzone sul suo passato o sul suo presente?
«Sono dovuta ritornare un po’ bambina per potermi guardare dentro e poter affrontare una per una le fasi di blocco che ho attraversato. Nella nostra vita, secondo me, c’è una linearità che ogni tanto viene interrotta e che ha bisogno di lunghe riflessioni per poter riprendere con il suo percorso. A me, almeno, è successo diverse volte. Nel mio tentativo di riconnettermi con me stessa, ho inserito riferimenti che sono adattabili tanto al presente quanto al passato. Quando cantoCrollano le Torri in America”, il riferimento è chiaramente alle Torri Gemelle, alla mia infanzia, a quando, come i miei coetanei, scoprii che cosa era successo. Da quel momento, ci sono state crisi economiche e infiniti problemi. Tutti ci ripetevano di sognare, di essere liberi. Ma è difficile sognare in un clima del genere. E poi c’è la provincia».

Che mondo è quello della provincia?
«A volte chiuso, limitato. Se sei diversa, se ti vesti in modo particolare, vieni additata come pazza. Io facevo atletica, e sono stata costretta a lasciare perché ogni giorno era un giudizio costante. E io non ce la facevo con quella pressione. Per questo sono grata alla musica: mi ha permesso di trovare il mio posto nel mondo, la mia voce, il canale per parlare con gli altri. Quindi è come se ci fosse un filo unico, continuo, tra la mia infanzia e il mio presente».

E i bulli?
«Ne ho incontrati anche da adulta. Il bullismo non è un fenomeno che riguarda solo l’infanzia o l’adolescenza. Il bullismo c’è sempre. Sui social, per esempio, è abbastanza diffuso. E poi ci sono le persone che incontriamo nella nostra vita, che si comportano come si comportano. Insomma, c’è una sorta di continuità pure in questo».

Quando si capisce di essere diventati adulti?
«Personalmente, credo di esserlo diventata quando mi sono resa conto che gli adulti non sono per forza autorevoli e infallibili; gli adulti spesso sono fragili, pieni di dubbi e contraddizioni. Io ho sempre pensato che diventare adulti significasse essere sicuri di sé stessi. E invece crescere significa accettare la propria fragilità. Ne ho parlato anche nel mio libroIl cuore è un organo. Da adulto, provi a raccogliere i frammenti del mondo in cui ti muovi facendo di tutto per rimanere te stesso. Da adulto, devi avere consapevolezza di ciò che ti circonda, a cominciare dalla tua fragilità».

L’essere adulti ha anche a che fare con il riconoscere i propri genitori come persone?
«Secondo me sì. Cresciamo pensando che i nostri genitori e gli insegnanti saranno le nostre guide, che ci diranno esattamente cosa fare. Poi però ci rendiamo conto che nostro padre ha le sue nevrosi, che nostra madre ha le sue insicurezze e così via. Sono persone, e vanno considerate proprio così».

Ci sono parole che non si possono dire nella musica? Che andrebbero evitate?
«La musica deve essere uno spazio libero, e deve potersi esprimere come vuole. Però gli slur, a meno che non si tratti di rivendicazioni da parte delle minoranze a cui sono rivolti, per me non si possono utilizzare. Io, per esempio, ho sempre evitato di dire la n-word. Anche nelle cover che ho fatto».

Fa più paura la pagina bianca o un pezzo cominciato e mai finito?
«Un pezzo cominciato e mai finito».

Perché?
«Nella musica, siamo schiavi del concetto di spontaneità: pensiamo di dover entrare in studio con il guizzo giusto per registrare. In realtà non credo che sia così. Questo è un lavoro d’artigianato, che si fa ogni giorno, anche con degli errori. Quando un pezzo non esce subito, ho paura. Mi sento una sfigata. Se ci rifletto, però, capisco che è normale, che va bene, che non possiamo fare tutto subito e velocemente, come qualcuno vorrebbe».

Dove nasce l’ispirazione?
«Dagli incontri. Serve parlare con le persone, confrontarsi e viaggiare. E viaggiare può essere anche fare due chilometri a piedi. Sono le storie che fanno la differenza».

Riflettendo sulla sua carriera, a cominciare da X Factor, c’è qualcosa che farebbe diversamente?
«Sì, sicuramente farei alcune cose in un altro modo. Però ogni volta che provo a capire cosa esattamente mi blocco. E allora capisco che serve tutto, anche quello che non viene bene».

Per esempio?
«Per esempio, negli ultimi due anni ci sono state delle cose che dal punto di vista della musica avrei fatto diversamente. Ma è anche vero che, negli ultimi due anni, ho vissuto delle situazioni che non augurerei a nessuno. Avere una malattia, non riuscendo più a riconoscere il mio corpo, non è stato facile. Ancora oggi faccio fatica».

Che effetti ci sono stati?
«Ho vissuto molti momenti come un malessere, e questo ha indubbiamente influenzato anche la mia musica e il mio percorso. L’ultimo Festival di Sanremo, per me, è stato estremamente difficile. Ma è servito. Ne parlavo ieri con Brail, che è il mio nuovo direttore musicale: io sono felice, di fatto, che sia andato così, che non sia andato bene. Altrimenti non mi sarei mai, come dice mia nonna, “svegliata fuori”».

Che cosa significa “non svegliarsi fuori”?
«Non avrei fatto i conti con la realtà, non mi sarei ricentrata. E avrei continuato con un percorso artistico non in grado di rispecchiare quella che sono davvero. Grazie a questo Sanremo, ho ripreso consapevolezza in me stessa».

Quando si smette di essere una giovane promessa?
«Boh. ( ride, ndr ) Non lo so. Oggi ho 30 anni e, in teoria, potrei ricominciare daccapo. Ci sono tantissimi artisti che iniziano proprio adesso, a quest’età. Non si smette mai di mettersi in discussione e se sei donna devi fare molta più fatica. In Italia, però, c’è questa idea strana di giovinezza. Per dire: parliamo di conduttori che hanno quasi 50 anni continuando a pensare che siano giovanissimi, dei ragazzini alla prima esperienza».

Alberto Arbasino diceva che si comincia come belle promesse, poi si diventa soliti stronzi. E solo pochi riescono a essere venerati maestri.
«Io sono decisamente una solita stronza. ( Ride, ndr ) Questa cosa me l’ha detta un mio caro amico, Nicola Canal, che fa il comico e che ha una pagina molto seguita, Il Canal. Ecco, quando gli ho confessato che ero in ansia per Sanremo, perché non ero più la ragazza sconosciuta pronta a esplodere e non ero nemmeno la grande artista come Giorgia, lui mi ha detto: Francesca, tu sei la solita cogliona, devi accettarlo». Ride.

Nel suo percorso, ha incontrato più venerati maestri o soliti stronzi?
«Bisogna capire che cosa vuol dire maestro».

Per lei che vuol dire?
«Per me un maestro è quello che ha la generosità di regalarti la sua esperienza e farti capire come vivere i tuoi prossimi passi, anche con la giusta leggerezza. Franco Battiato, per esempio, mi scelse per una sua opera teatrale quando avevo appena 17 anni, e mi permise di entrare nel suo mondo e nella sua dimensione. Giorgia ed Elisa sono state fondamentali per me. Ma pure Paola e Chiara, cantautrici spesso poco considerate ma tra le artiste pop più importanti della mia infanzia. Mi hanno sempre dimostrato una gentilezza e un’attenzione straordinarie. Entrare in contatto con queste persone, che hanno una carriera più lunga della tua e che hanno la generosità di darti dei consigli, come Jovanotti, a cui mandavo sempre i miei pezzi via e-mail, è fondamentale. Un maestro non è solo quello che si è laureato al Conservatorio o che è riconosciuto come esperto; un maestro è qualcuno pronto ad ascoltarti e a rispondere ai tuoi dubbi».

Ritorno alla domanda di prima: ha conosciuto più venerati maestri o soliti stronzi?
«Be’, è chiaro che, insieme a queste persone generose, incontri anche tante persone frustrate, che fanno di tutto per metterti in difficoltà. Diciamo che sono stata fortunata: ho incontrato più venerati maestri, e quei pochi stronzi che ho conosciuto mi hanno permesso di capire ulteriormente l’importanza dei maestri».

Qual è stato il suo primo concerto da spettatrice all’Arena di Verona?
«In realtà c’è stato pochissimo tempo fa. ( ride, ndr ) Io l’Arena di Verona la guardavo da piccola, quando c’era il Festivalbar. E ho sempre sognato di salire su quel palco. Non ci sono mai andata fino al concerto di Jovanotti, che per me è stato tanto bello quanto formativo».

In che senso?
«Guardandolo, ho capito come voglio fare il mio palco e come voglio disporre la band al mio concerto. L’Arena è unica per la sua storia e per la sua struttura».

Il prossimo 4 ottobre ci sarà Michielin30 – Tutto in una Notte proprio all’Arena di Verona. Ha paura?
«Sì, l’Arena fa paura. E forse è una mossa azzardata. Però la risposta che stiamo ricevendo è positiva. Quindi da una parte ho molta paura, dall’altra non vedo l’ora. Abbiamo chiuso la scaletta proprio ieri, e sarà sicuramente molto particolare».

Lei ha una chat WhatsApp con Margherita Vicario e Gaia.
«E anche una con Levante e Maria Antonietta».

Che vi dite in questa chat?
«Ci chiediamo come va, che cosa stiamo facendo; ci diciamo quello che vogliamo. Quando abbiamo qualcosa da condividere di più profondo, ci confrontiamo. Margherita e Gaia sono due persone buone. Gentili. Non hanno retropensieri o pregiudizio. Mi mandano delle belle energie; a modo loro, sono molto spirituali».

La creatività ha più a che fare con la testa o con la pancia?
«La tecnica è uno strumento. È un po’ come quando fai atletica e hai delle buone scarpe che ti aiutano ad ammortizzare i passi e la corsa. Ecco, io studio per quello: per avere delle scarpe capaci di aiutarmi ad ammorbidire le difficoltà che mi aspettano. Però, secondo me, è vero quello che dice Dante: piove dentro l’alta fantasia. L’ispirazione è una cosa abbastanza spirituale, e ci vuole tanta voglia di guardarsi dentro. Per questo non credo molto nelle canzoni slogan, fatte tanto per».

Quante crisi spirituali ha avuto?
«Eeeh, Madonna! ( Ride, ndr ) Tantissime. Ne ho almeno una al mese. Io dubito sempre delle mie capacità, sempre. Una volta lo psicologo da cui andavo mi ha detto una cosa molto bella; mi ha detto: i grandi filosofi credono nel dubbio; gli stolti nella certezza. Ecco, provo a vedere il bicchiere mezzo pieno e mi accontento dei miei dubbi».

Che cosa hanno in comune l’atletica e la musica?
«Sicuramente la passione e il fatto che a furia di provarci qualcosa esce. ( ride, ndr ) L’atletica, dalla sua, ha molta oggettività. Se faccio un disco, invece, non è detto che vada bene. Non sono mai stata una fan di chi accosta la musica allo sport; sono due cose diverse. L’idea stessa dei risultati è differente. A me, per esempio, continuano a dire: sei troppo sottovalutata. Ma che cosa vuol dire? Per me va bene, e non ci sono parametri unici. L’atletica si basa molto sulla tua perseveranza e sull’attenzione, sulla forza e sulla leggerezza. E in questo sì, è come la musica».

Qual è la canzone migliore da ascoltare mentre si fa atletica?
«Se penso al salto in lungo, mi viene in mente Can’t Stop dei Red Hot Chili Peppers. L’intro mi ha sempre aiutato a trovare il passo giusto. Se chiedi a un ostacolista qual è la cosa più difficile della corsa a ostacoli, ti dirà il ritmo. E lo stesso vale per il salto in lungo».

Dov’è casa?
«Non lo so... ( Ride, ndr ) Sono alla ricerca».

Riformulo: che cos’è casa?
«È un’idea, non per forza un posto fisico. Dipende molto dalle persone che sono intorno a noi. Sicuramente, per me casa è dove c’è tanta natura. Se sono vicina alla natura, sto meglio».

A chi appartengono le canzoni una volta che vengono pubblicate?
«Non sono più mie, e questa è una cosa bella. Sono di tutte le persone che ci vedono qualcosa della propria storia, ed è il potere della musica. Con i suoi pro e i suoi contro».

Mi fa un esempio delle controindicazioni della passione?
«In questi giorni sono ricoperta di insulti su TikTok per una mia cover di What’s My Age Again? dei Blink-182. I fan mi dicono che non si esegue così. E questo mi ha fatto pensare: ognuno di noi è molto geloso dei suoi ascolti. Io lo sono stata per Adele quando è uscito 21, il disco che l’ha consacrata. E sono stata una grande fan anche del suo primo album, quando non era ancora così famosa».

Che cosa ha capito?
«La musica, per essere immortale, deve avere qualcosa da dire in forme sempre differenti. La musica deve diventare di tutti, in maniera diversa e attraverso storie diverse».

Non è stancante avere a che fare con certi commenti?
«In realtà, non ho così tanti hater. ( Ride, ndr ) Ne parlavo anche con Giorgieness l’altro giorno. Se fai quello che fai e ne sei sinceramente felice, a qualcuno darà fastidio. Sempre. E succede per motivi diversi, a volte veramente difficili da capire. Io proverò ad andare avanti per la mia strada, con le mie battaglie, e poi mi prenderò delle sane pause dai social. Solo ignorare, però, non va bene».

Quanto sente di essere cambiata in questi quasi quindici anni di carriera?
«Molto e, in un certo senso, poco. In questa fase sto provando a recuperare quello spirito bambino che avevo quando ero più giovane».

Qual è il regalo più bello che si è fatta grazie al suo lavoro?
«In realtà, spendo i soldi normalmente, senza grandi esagerazioni».

Però?
«Però sono stata felice di poter comprare il mio piano a coda grazie ai soldi guadagnati con le canzoni. In un certo senso, si è chiuso un cerchio».