martedì 20 maggio 2025

L’Eurovision è il più grande musical mai scritto sul fallimento dell’idea di Europa

Tra glitter, folklore e coreografie folli, il contest canoro ci ha ricordato che l’Europa non è mai stata un concept album, ma una playlist confusa che continua a suonare in loop nonostante la realtà, dove i Paesi fingono di amarsi e i voti si danno per ripicca. Proprio come in famiglia


Ieri sera Basilea ci ha accolti con 26 performance, 160 milioni di spettatori, 900 chili di lustrini, decine di casi di abuso dell’aggettivoiconicoda parte di BigMama e una certezza rinnovata: la musica è l’unica cosa che ci unisce davvero come popolo europeo, mentre siamo accuratamente separati da tutto il resto. Mai come in occasione di questo evento noi europei appariamo al mondo per quello che siamo davvero: una macro-tribù post-ironica incapace di sentirsi parte della stessa terra, ma ancora abbastanza solidale col prossimo da votare, due islandesi vestiti come alieni nella prima stagione di Star Trek. E se l’euro ci ha uniti e impoveriti economicamente, l’Eurovision è in grado di recuperare, facendoci sentire, al termine della lunghissima serata della finale, un po’ disuniti ma arricchiti moralmente dalla somma di tutte le nostre povertà, melodiche e ritmiche.

L’eccitazione del pubblico live era quella di bambini a una festa in ludoteca dove gira voce che i genitori del festeggiato hanno speso una cifra indecente per l’animazione. Applaudivano tutto, anche le note sbagliate, anche i synth scollati, anche la “cartolina” di Tommy Cash a tema l’hockey su pista – che pareva un tributo ai pomeriggi su RaiSport nel 2004. Forse gli eurofan sono gli unici veri europeisti rimasti. Conservano la memoria storica, aggiornano le tabelle, fanno il tifo come se dalla loro canzone preferita dipendesse la dignità del continente. Per loro il televoto è la ABC dei sentimenti. Ogni voto una transazione affettiva.

Questo perché l’Eurovision è l’unico rito mediatico in cui l’Europa della burocrazia, dell’austerity o del G7 diventa puro spettacolo della sua inconsistenza ideologica e concettuale. È un evento meravigliosamente assurdo. È insieme una gara canora, una parata kitsch, la parodia di un esperimento di diplomazia culturale, un circo post-Orfei senza animali ed una fabbrica di meme viventi. Non è certo un posto dove andare a cercare l’eccellenza musicale ( anche se ogni tanto ci scappa un pezzo bellissimo ), ma è un termometro perfetto dello spirito europeo, messo in musica: un continente fatto di nazioni che, quando provano a fare qualcosa insieme, di concerto, finiscono puntualmente col cantare, su basi registrate, in una lingua inventata, tra fuochi d’artificio, paillettes e simbolismi politici involontari quanto geniali.

Archiviato ormai da diverse edizioni il problema della rappresentazione canora della disconnessione dalle altre nazioni d’Europa, gli artisti cantano per lo più di una disconnessione da sé stessi. Ansiosi, preoccupati per il futuro, si sentono isolati e scompagnati. Così – e come dargli torto – si presentano sul palco sceneggiati come naufraghi sentimentali a bordo di una zattera alla Géricault; perché, se essi devono annegare, che anneghino con loro anche i loro dispiaceri, annaspando sì, ma a schiena e cassa dritta. E vincono, moralmente ( tutti ) e letteralmente ( l’austriaco JJ ).

Il bello dell’Eurovision è che vi possano coabitare Parg l’armeno e Lucio Corsi, che remano in direzione perfettamente contraria e, dunque, si annullano a vicenda. L’uno, palestrato, a torso nudo, sporco di fango, si è rappresentato in perenne e immotivata corsa da una parte all’altra del palco, mentre fiamme scenografiche esaltavano la luccicanza del suo sudore agonistico e, almeno nella sua idea di fondo, alquanto mistico. L’altro si è presentato a metà gara come un momento di ristoro per le orecchie e come il fantasma di un’Italia che è ancora in grado di essere onesta intellettualmente nel parlare di sé. Ricontestualizzata a Basilea, Volevo essere un duro è suonata ancora di più come la parabola commovente di un italiano medio, allevato a suon di eroismi maschili e desideri scolpiti nei calendari Pirelli, che sogna i Clash e finisce per accettare la sua irrimediabile inadeguatezza. Epitaffio vivente del post-machismo nazionale, quello che credeva di vincere ( e non vinceremo! ), l’italiano di Lucio si è ritrovato a guardare vecchie clip di Topo Gigio col plaid sulle ginocchia. È il ritratto di un Paese che ha provato ad essere forte e si è scoperto fragile, tenero, emotivamente disorientato. E che forse, proprio per questo, è ancora degno di una canzone. Grazie a Lucio Corsi perdiamo con un sorriso, una giacca glitterata e un’armonica a bocca live e abusiva.

Per questo l’Eurovision è uno degli eventi mediatici più funzionalmente camp della storia dell’umanità. Qui il camp è sì un’estetica, ma anche un’ideologia e una fede. È il lato più scintillante, queer, autoreferenziale e volutamente posticcio del Song Contest, quello in cui ogni cosa è troppo, e quindi è perfetta. Il camp all’Eurovision non è un incidente: è l’anima stessa dell’evento. È Dana International che vince nel 1998 in piume di pappagallo con un inno disco-trans che sembra uscito da un club di Tel Aviv nel 2047. È Verka Serduchka, drag ucraina in uniforme da ufficiale spaziale con una stella in testa, che urlaRussia goodbye!nel 2007 mentre balla su una polka elettronica. È Lordi, i mostri finlandesi in costume da horror metal che nel 2006 vincono truccati da film di serie Z. È Conchita Wurst che trasforma Rise Like a Phoenix in un’epifania queer degna di una Bond song reincarnata in drag.

Costumi con led sotto le ascelle, scenografie iperboliche, coreografie che sembrano partorite da un sogno di Raffaella Carrà in stato di grazia featuring Freddie Mercury sotto acido. L’Eurovision è una rivendicazione identitaria, un modo per trasformare il ridicolo in resistenza, lo sberleffo in fierezza. L’Eurovision camp è ciò che accade quando minoranze, paesi piccoli, voci fuori dal coro e performer borderline usano il palcoscenico più guardato d’Europa per dire: “Io ci sono, e glittero più di voi”.

Capolavoro del trash consapevole l’Eurovision è il regno extra-territoriale di chi sa che il bello non sempre è sinonimo diben fatto”, ma può essere anche “così brutto da fare il giro”. L’Eurovision, per questo, è l’unica competizione musicale in cui non capire una parola di quello che gli artisti cantano non è necessario, ma aiuta. Anche quando un testo è in inglese, nel bailamme che tutto ammanta, il suo significato rimane avvolto in un mistero degno di Twin Peaks. Ma va bene così. La chiave di volta ermeneutica, del resto, è proprio applaudire il mistero, idolatrare il nonsense, mettere in scena un’Europa dove ogni Stato si racconta come può, anche a costo di sembrare una versione remixata da Gabry Ponte di sé stesso.

Perché, e qui viene il nodo, nessuno di loro ( o quasi ) è espressione di un’identità nazionale. Sono tutti figli deviati dello showbiz americano passato e ripassato per la gavetta delle sagre del proprio Paeseo paese ) di appartenenza. Con due eccezioni: il solito, adorabile Lucio Corsi, con il suo canto di provinciale redento; e la Grecia, che ha tirato fuori riferimenti alla sua antichità classicae allo spirito tragico che ne consegueatmosfere da God of War tra templi in rovina, fiamme infernali e madri vendicatrici. La Svezia merita una nota a parte: i suoi campioni non cantano, come quasi tutti gli altri, il dramma di un amore infelice, metaforico o no, verso persone o cose; bensì quello perfettamente corrisposto di un popolo con un luogo dell’anima: la sauna come esperimento di catarsi collettiva. Un’idea forte, quasi politica: chiudiamoci in una stanza a sudare finché non ci capiamo. E se non ci capiamo, almeno sudiamo insieme.
San Marino è stato rappresentato da Gabry Ponte vestito di tricolore italiano come un nostro compatriota ubriaco in trasferta a Mykonos. Peccato che la sua performance sia stata archiviata, da pubblico e critica, come “meh” già durante il primo chorus. È lui il grande sconfitto della serata, ma in fondo è abituato: è dal 2001 che la sua musica si ascolta, più che altro, mentre si vuotano le vodke dell’Eurospin dal bagagliaio della macchina, prima di andare in discoteca.

In tutto questo, va notato che la Rai è riuscita a mandare la pubblicità durante l’esibizione di Michelle Hunziker che cantava Nel blu, dipinto di blu. Era la madre adottiva di tutte le esibizioni italiane, certo più italiana di quella di Gabry Ponte o di Tommy Cash, ma è stata trattata dalla nostra regia di Stato come uno stacchetto qualunque. È autosabotaggio, è masochismo, è Rai 1. Ma è anche, maledettamente, Italia; almeno quanto Topo Gigio che ci fa da ambasciatore, parlando al mondo in collegamento dalla Fontana di Trevi.

A vincere è stato JJ, austriaco, controtenore, naufrago emotivo. Wasted Love, la sua canzone, è di fatto un’elegia per amori evaporati per l’eccessivo calore delle speranze malriposte. JJ canta come se stesse per spegnersi in diretta, con una voce che è un numero operistico che, sul più bello, sorprende con un do di techno. Unico, straniante, struggente. Il suo comunicato stampa è pura poesia in prosa: “C’è un dolore particolare nel possedere un amore immenso da donare, senza però avere un luogo in cui possa arrivare. È come galleggiare in mare su una fragile barca di carta – aggrappandosi ad ogni scintilla di speranza, solo per vederla dissolversi sotto di sé”.

Ecco, forse proprio lui, senza volerlo, ha scritto il manifesto dell’Eurovision e dell’Europa stessa. Un continente che ama disperatamente ma non sa dove mettere tutto questo amore. Un club di cuori infranti che cantano uno per l’altro, senza capirsi, senza votarsi – perché sì, ricordiamolo: il televoto non poteva indicare il proprio Paese. Dovevi votare l’altro, il meno pericoloso, il meno bravo, il più lontano dalla tua storia. Una metafora perfetta della democrazia europea: se proprio devi scegliere, scegli chi non ti minaccia.

L’Eurovision è, in fondo, il più grande musical mai scritto sul fallimento dell’idea di Europa. Non quello politico o economico, che si consuma nelle stanze di Bruxelles e nei grafici delle borse, ma quello emotivo, narrativo, simbolico. È l’epica mancata ( ma, proprio per questo, interessante ) di un continente che voleva cantare all’unisono e invece va in scena come un karaoke di solitudini nazionali, in cui ciascuno Stato membro ( e qualcuno non membro ) fa capolino nella scaletta travestito da delirio folkloristico. È il sogno infranto dell’unità che si ricompone ogni anno a colpi di luci LED, cori multilingue e voti geopolitici, nella speranza che la coreografia tenga almeno fino ai fuochi d’artificio finali.

E, tra un Lussemburgo che cercava di riscrivere il proprio ruolo nel mondo tirando fuori la favola di una Barbie che scappa dalla sua casa di bambola, una Malta che aveva appaltato la scenografia a Case Pacchiane e una Finlandia che credeva di aver appena annesso Ibiza, l’Eurovision ci ricorda che l’Europa non è mai stata un concept album, ma una playlist confusa che continua a suonare in loop, nonostante la realtà.

Dove i Paesi fingono di amarsi e i voti si danno per ripicca, in fondo, è proprio questo il miracolo: cantare assieme pur odiandoci un po’. Come in famiglia. Come in Europa.